“SOGNATORE” ED EVANGELISTA”
Di un Gesù così non ho mai sentito parlare in Chiesa. Forse i presbiteri temono di essere fraintesi e di accentuare ulteriormente le poche e già abbastanza confuse idee che circolano sui temi della fede. Se non addiritura di scandalizzarci con il “nuovo” che avanza grazie alla ricerca biblico-teologia, non per demolire la nostra fede ma per rinverdirla e farla diventare adulta.
Poiché io del mio vecchio professore mi fido, volentieri sottopongo a un riesame critico le mie acquisizioni. Gli studiosi esistono per questo. Come esistono i Pastori a protezione del gregge.
Comunque, libero ogni lettore di stare nelle sue convinzioni se queste riflessioni lo disturbano. Ciò che mi auguro invece è che servano di stimolo per ulteriori approfondimenti di tematiche basilari del nostro credere.
Discorsi prettamente accademici? Vorrei che così non fosse.
Sognatore del sogno di Dio mi illudo di esserlo. Ma mi piacerebbe anche essere evangelizzatore, ossia portatore della Buona Notizia che è Gesù di Nazareth, il Crocifisso-Risorto, il Vivente che ci ha promesso il suo Spirito di Verità:
“Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”.(Mt 28,20).
Ci credo. Più lo conosco, più lo amo. Davvero ” una malattia inguaribile“.
Di Marco Ronconi
Incontriamo il professor Giuseppe Barbaglio nel suo studio, al centro di Roma. Già dalle prime battute, emerge con chiarezza la grande passione per il proprio lavoro. La stessa passione che lo ha portato a coordinare, insieme a Severino Dianich, il Nuovo Dizionario di Teologia arrivato nel 2000 all’ottava edizione, prima di essere sostituito dal recente Teologia, curato insieme allo stesso Dianich e a Giampiero Bof.
Ultimamente, tuttavia, i suoi studi si sono concentrati sul problema del cosiddetto “Gesù storico”, da cui è derivato un dettagliato tomo di quasi 700 pagine. Da lì, muove la nostra intervista.
Il suo ultimo lavoro su Gesù di Nazareth ha come sottotitolo: “Indagine storica“. Come mai un esperto di scienze bibliche si dedica alla storia?
«L’analisi dei testi evangelici porta in modo del tutto naturale al problema della storicità. Da più di due secoli, ormai, gli studiosi si trovano di fronte a un interrogativo decisivo: “Cosa possiamo dire, di storicamente fondato, su Gesù di Nazareth?”. È normale, e a mio avviso necessario, distinguere il Gesù di Nazareth dal Cristo della fede. Distinguere non vuol dire separare, ma riconoscere ad esempio che il Gesù di Nazareth nella sua vicenda storica è una realtà che interessa tutti, non solo i credenti. I credenti hanno evidentemente la specificità di credere nel Cristo risorto; l’approccio storico, invece, mostra come Gesù non sia “proprietà” dei soli credenti, ma patrimonio di tutti».
Gli studiosi, tuttavia, concordano nel dire che i Vangeli non sono stati scritti con un intento storico. Perché ostinarsi a cercare in essi ciò che non si sono premurati di avere?
«I Vangeli hanno un’intenzione che oggi potremmo definire “pastorale“: si rivolgono alla fede della comunità cristiana. Questa fede, tuttavia, ha il suo oggetto in Gesù, un personaggio storico, vissuto in Galilea, morto tragicamente e creduto risuscitato. Ne consegue che la vicenda storica di Gesù è oggetto di fede. Direi di più: una visione di fede su Gesù non può prescindere dalla storia. Certamente, la fede ha una sua ottica particolare in quanto parte dalla luce della risurrezione. I Vangeli, in particolare, essendo scritti di fede, costituiscono un genere medio fra quelli che nell’antichità erano la historia e l’encomio: da una certa base storica si produceva un racconto con scopi non strettamente storici. La difficoltà della ricerca storica è trovare nei Vangeli, che sono testimonianze non direttamente storiche, gli elementi storici contenuti».
Ci sveli il finale: cosa si può dire alla luce di queste indagini, su Gesù di Nazareth?
«Alla luce dei due secoli di ricerca che abbiamo alle spalle, possiamo individuare risultati di diverso tipo. Sorvolando sui pur interessanti dati di critica storica, una serie di risultati a mio avviso interessanti coincidono con l’inquadramento di Gesù nel suo contesto: Gesù era un ebreo. Rimane un problema interessante investigare quali rapporti ha avuto con i diversi movimenti ebraici del tempo, come farisei, sadducei, esseni, ma il risultato è di grande importanza.
Un’altra acquisizione molto significativa è l’accettazione che una vita di Gesù non si può scrivere. Possiamo rintracciare alcuni elementi, ma non possiamo tracciare l’arco completo della sua vicenda. Di alcuni tratti non abbiamo nemmeno la certezza: quanti anni Gesù ha fatto vita pubblica? Seguendo Marco, un anno o poco più, mentre seguendo Giovanni si calcola che fossero tre. Allo stesso modo, non siamo in grado di ricostruire la parabola psicologica di Gesù: come è cresciuto, quali idee lo hanno influenzato…».
Dal punto di vista storico, non è quindi possibile fare un ritratto di Gesù?
«Oggi, si discute molto su due immagini contrastanti di Gesù. Secondo il filone seguito da J.D. Crossan, J. Borg e altri, Gesù sarebbe stato soltanto un maestro di vita morale ed etica, che avrebbe insegnato una sovversiva sapienza del vivere. L’altro filone, iniziato da Schweitzer e continuato da E.P. Sanders e altri, e in cui anch’io mi rivedo, dice che Gesù è stato sì un maestro, ma è stato soprattutto un “sognatore“, un po’ come Martin Luther King e il suo “I have a dream“. Il sogno di Gesù era un sogno perfettamente inserito nel contesto di quell’epoca giudaica, impregnata dell’attesa di una svolta decisiva nella storia.
Il “sogno” di Gesù era il “regno di Dio“, espressione che andrebbe meglio tradotta: “La regalità, la signoria di Dio“. Dio comincia a diventare re nella storia, adesso, e il suo dominio è liberante, non dispotico. Questo “adesso” è un elemento di originalità di Gesù. La frase: “Se io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto fino a voi il regno di Dio” (Lc 11,20) è un detto che tutti riconoscono come suo proprio.
La caratteristica più originale di questo suo “sogno“, tuttavia, è che questa svolta decisiva si attua attraverso di lui, nei villaggi di Galilea, in quelle guarigioni e in quei gesti di accoglienza verso tutti i diseredati dell’epoca, perché la signoria di Dio è così liberante che non chiede nemmeno una conversione previa…».
Il Gesù “sognatore” non è un’idea nuova nel panorama della ricerca sul Gesù storico, o sbaglio?
«Questo Gesù “sognatore” è stato certamente studiato prima da Weiss e poi da Schweitzer, un secolo fa. Il loro studio, tuttavia, accentuava un elemento che non è, a mio avviso, così essenziale: il fallimento di Gesù, la sua illusione. Ritenevano cioè che Gesù fosse un apocalittico, tutto proteso verso questo cambiamento totale prossimo e che questa prossimità fosse la cosa essenziale. Personalmente, penso invece che questa sua illusione circa i tempi dell’esplosione del regno di Dio in terra appare secondaria.
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Il centro del “sogno” di Gesù sta nel fatto che la regalità di Dio è già presente, come in un frammento, in questa piccolissima forma che è la sua azione.
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Gesù era un “evangelista“, cioè un portatore della buona notizia, non solo con le parole ma con i fatti.
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La buona notizia è che Dio è già re nella storia, ora, e che la realizzazione piena ci sarà un giorno.
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Non si poteva pensare solo come un profeta chi pensava di essere lo strumento di realizzazione dell’avvento finale di Dio».
A proposito, cosa si può dire dell’autocomprensione di Gesù?
«I nostri limiti di ricerca sono enormi. A mio giudizio, la sua autocomprensione non era di essere il Messia, o il Figlio di Dio trascendente, o il Figlio dell’uomo che scenderà sulle
nubi del cielo a giudicare i vivi e i morti, o un altro dei grandi titoli che gli saranno attribuiti legittimamente in seguito. Penso che la sua autocomprensione fosse ugualmente originale e grandiosa: si pensava come l’evangelista escatologico, cioè ultimo e definitivo, della signoria escatologica di Dio. Una tale autocomprensione è tale che, se noi crediamo in lui, l’accettiamo; ma se non crediamo, la riteniamo qualche cosa di folle e pensiamo lui un esaltato e un paranoico».
Nella sua ricerca ha evidenziato alcuni dati che non corrispondono al dato tradizionale. Per esempio, i famosi fratelli di Gesù…
«Su questa questione ormai abbondantemente studiata, mi sembra di poter concludere, dal punto di vista storico, che Gesù apparteneva, per così dire, a una famiglia numerosa, avendo quattro fratelli e alcune sorelle, come attesta Marco. Detto questo, mi si chiede: “Da cattolico, come te la cavi nell’accordare questo dato con il dogma della sempre verginità di Maria?”.
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La prima risposta è che le ragioni della fede non poggiano sic et simpliciter sui risultati, sempre limitati e settoriali, della ricerca storica. Non bisogna mai fare un corto circuito fra le due dimensioni.
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Il problema è interpretare il dogma. È più corretto, ad esempio, ridurre il dogma a un fatto fisiologico, o considerare Maria, meravigliosa icona della comunità cristiana, come la sempre vergine nella sua anima, nella sua fedeltà a Dio e nella sua integrità di credente?
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Penso che una lettura spirituale del dogma, possibile anche grazie alla critica storica, non ci farebbe rimpiangere troppo una lettura semplicemente fisiologica».
Ritornando all’ebraicità di Gesù, viene da pensare all’utilizzo antigiudaico che è stato fatto di molti testi evangelici. A proposito della passione, ad esempio, chi sono i responsabili della morte di Gesù?
«I Vangeli canonici, soprattutto Matteo, sono molto severi con il mondo ebraico contemporaneo a Gesù di Nazareth. Il vangelo apocrifo di Pietro arriva addirittura a individuare come unici responsabili Erode Antipa e i giudei. Una lettura storica mostra qui un altro elemento di grande valore: l’antigiudaismo non è elemento tardivo, ma nasce subito in seguito alla polemica seguita alla separazione fra Chiesa e sinagoga. Il problema odierno è liberarsi di questo fardello cercando un equilibrio fra posizioni che rischiano troppo spesso l’ideologia, come l’opera di Chaim Cohn, Processo e morte di Gesù. Un punto di vista ebraico, degli anni ’60 e tradotto in Italia nel 2000, che, ragionando in modo uguale e contrario agli apocrifi, discolpava completamente il gruppo di Caifa a danno unicamente dei Romani.
Possiamo dire in realtà due cose:
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in primo luogo, Ponzio Pilato era l’unico che aveva il potere di istruire il processo, di condannare a morte e di far eseguire la sentenza.
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Il secondo dato è che un gruppo di potere dominante a Gerusalemme, che faceva capo a Caifa, ha sostenuto la parte della pubblica accusa.
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Dal punto di vista giuridico, la condanna ricade tutta su Pilato, mentre il gruppo di Caifa ha un concorso di responsabilità, grave anche se secondaria.
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Scagionerei il gruppo dei farisei, avversari di Gesù solo sul piano dialettico.
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Soprattutto, lascerei completamente perdere il concetto di colpa, che è un concetto morale, preferendo quello più corretto di responsabilità».
Alla fine del XIX secolo si diceva che il Cristo della fede ecclesiale era estremamente diverso dal Gesù della storia. A metà del XX secolo si è discusso aspramente se il Gesù della storia fosse necessario al Cristo della fede. Oggi?
«L’oggetto della fede riguarda per così dire due in uno: da una parte il Gesù, nato, vissuto e morto, e dall’altra il Cristo risorto. Potremmo dire che Gesù è un essere bidimensionale in un’identità di persona.
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L’oggetto della fede non è quindi solo la risurrezione, ma anche la storia di Gesù. Se non ne facesse parte, rischieremmo di avere in mano un Logos disincarnato, un essere divino che non ha nulla a che fare con la storia, con la carne umana.
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Se la fede cristiana si basa sull’assunto giovanneo che il Logos, la parola di Dio, si è fatto carne, la ricerca storica ci fa toccare con mano questa incarnazione, questo personaggio storico “marginale“, come ha ben detto Meier nella sua monumentale opera ancora incompiuta: un Gesù vissuto alla periferia del giudaismo del tempo, che viaggiava per i villaggi senza mai entrare nelle città maggiori del tempo, che è andato a Gerusalemme alcune volte, in particolare in occasione dei grandi pellegrinaggi, e là è stato condannato a morte.
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Marginale anche per le sue scelte anticonvenzionali, a partire dalla sua erranza, dal suo grande sogno della regalità albeggiante di Dio.
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Potremmo tradurre Gv 1,14 così: “Il figlio di Dio è diventato un ebreo“. Culturalmente, razzialmente e religiosamente, Gesù era un ebreo. Aveva sangue ebraico.
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Questa potrebbe essere una via per uscire dal nostro secolare antigiudaismo, dal momento che noi crediamo in questo ebreo, morto in croce, che Dio ha risuscitato».
Fonte: http://www.stpauls.it
Quando ho letto le prime frasi, non sapevo se andare avanti… avevo paura di trovare qualcosa che mi turbasse o mettesse in crisi le cose in cui credo… invece è stata una bella lettura!!! Anzi, mi piacerebbe anche approfondire l’argomento, magari comprando qualche libro di questo professore che ormai piano piano stiamo conoscendo anche noi!
La cosa che mi ha incuriosito di più e alla quale non avevo mai dato grande importanza è l’autocomprensione di Gesù. Per me era scontato che sapesse di essere Figlio di Dio… mi piacerebbe riflettere su questa cosa…
Cara Annamaria,
nel tuo intervento che mi ha fatto tanto piacere perché sei riuscita a superare l’istintiva resistenza iniziale, scrivi: “Per me era scontato che sapesse di essere Figlio di Dio… mi piacerebbe riflettere su questa cosa…”.
Personalmente potrei solo balbettare, giacché l’argomento è complesso. E proprio per questo è oggetto di studio. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, dopo aver parlato della conoscenza acquisita di Cristo (n. 472), parla anche di un altro tipo di conoscenza, “della intima e immediata che il Figlio di Dio fatto uomo ha del Padre suo” (n. 473).
Giovanni Paolo II ha accennato a questa consapevolezza di Cristo in una pubblica udienza e ha detto: “In realtà, se Gesù prova il sentimento di essere abbandonato dal Padre, egli però sa di non esserlo affatto. Egli stesso ha detto ‘Io e il Padre siamo una cosa sola’ (Gv 10,30), e parlando della Passione futura: ‘Io non sono solo, perché il Padre è con me’ (Gv 16,32). Sulla cima del suo spirito Gesù ha netta la visione di Dio e la certezza della unione col Padre. Ma nelle zone di confine con la sensibilità e quindi più soggette alle impressioni, emozioni e ripercussioni delle esperienze dolorose interne ed esterne, l’anima umana di Gesù è ridotta ad un deserto, ed Egli non sente più la ‘presenza’ del Padre, ma fa la più tragica esperienza della più completa desolazione” (30.XI.1988).
Anche nella lettera Novo millennio ineunte (6.1.2001) ne parla in questi termini: “La tradizione teologica non ha evitato di chiedersi come potesse, Gesù, vivere insieme l’unione profonda col Padre, di sua natura fonte di gioia e di beatitudine, e l’agonia fino al grido dell’abbandono. La compresenza di queste due dimensioni apparentemente inconciliabili è in realtà radicata nella profondità insondabile dell’unione ipostatica. [n.d.t. – delle due nature, divina e umana]
Di fronte a questo mistero, accanto all’indagine teologica, un aiuto rilevante può venirci da quel grande patrimonio che è la «teologia vissuta» dei santi. Essi ci offrono indicazioni preziose che consentono di accogliere più facilmente l’intuizione della fede, e ciò in forza delle particolari luci che alcuni di essi hanno ricevuto dallo Spirito Santo, o persino attraverso l’esperienza che essi stessi hanno fatto di quegli stati terribili di prova che la tradizione mistica descrive come «notte oscura».
Non rare volte i santi hanno vissuto qualcosa di simile all’esperienza di Gesù sulla croce nel paradossale intreccio di beatitudine e di dolore”.
L’affermazione del Papa “…accanto all’indagine teologica…”, autorizza ad andare oltre i dati acquisiti dalla teologia. Dunque, il tuo desiderio di riflettere su questa e tante altre cose, con l’aiuto degli studiosi, non può essere che lodevole segno di maturità.
A me sembra che il prof. Barbaglio, sull’autocomprensione di Gesù, si esprima in modo onesto:
«I nostri limiti di ricerca sono enormi. A mio giudizio, la sua autocomprensione non era di essere il Messia, o il Figlio di Dio trascendente, o il Figlio dell’uomo che scenderà sulle nubi del cielo a giudicare i vivi e i morti, o un altro dei grandi titoli che gli saranno attribuiti legittimamente in seguito.
Penso che la sua autocomprensione fosse ugualmente originale e grandiosa: si pensava come l’evangelista escatologico, cioè ultimo e definitivo, della signoria escatologica di Dio. Una tale autocomprensione è tale che, se noi crediamo in lui, l’accettiamo; ma se non crediamo, la riteniamo qualche cosa di folle e pensiamo lui un esaltato e un paranoico».
Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarèa di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente chi dice che sia il Figlio dell`uomo?”. Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Voi chi dite che io sia?”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l`hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli.” (Matteo 16, 13-17)
Forse che Pietro avesse coscienza di chi fosse Gesù più di quanta ne avesse Gesù stesso nei suoi propri confronti?